Nostalgia canaglia: com’è cambiato il “borgo” di Taranto?

Mi sono recentemente imbattuta  in un libro scritto da un professore tarantino, Giacinto Peluso. Uno dei paragrafi si intitolava “Nostalgia del Borgo”. Voglio regalarti le sue parole, che descrivono com’è cambiato questo fazzoletto della città.

“Taranto: da un ponte all’altro”, si intitola così il libro scritto da Giacinto Peluso, professore tarantino, che mi è capitato tra le mani qualche giorno fa. Un libro ricco di storie incredibili, detti e curiosità sulla città dei due mari. Quella che più mi ha colpito parla del borgo. Della nostalgia dei tempi andati. Di quel fascino che Taranto emanava, soprattutto, tra il 1930 e il 1940. Malgrado ami raccontare storie, non sarei stata capace di tracciare una descrizione del borgo durante gli anni del fermento sociale e culturale, oggi smarrito, con la stessa forza emotiva di chi, come Peluso, l’ha vissuto davvero.

Per questo motivo riporto fedelmente le sue parole, poetiche ed emozionanti.

Non bisogna pensare che, per il fatto di essere nati e cresciuti nella città vecchia, ignorassimo o ci disinteressassimo del “Borgo”. Divenuti giovanotti, subivamo il fascino della città nuova, della larghezza delle strade sgombere e pulite, dell’eleganza dei negozi, della bellezza delle ragazze sino al punto di sentirci contrariati di abitare ancora in un vicolo, sia pure di un palazzo baronale.

Può darsi che la formazione che avevamo avuto, tutta in funzione di ideali, che oggi sembrano perfino ridicoli, ci facesse apprezzare una semplice passeggiata, gustare un film pulito, applaudire al passaggio della “bandiera”, e tante altre piccole cose che lasciano intravedere un mondo molto diverso da quello opulento ma disordinato di oggi.

La domenica la via D’Aquino assumeva un aspetto così “mondano” e nello stesso tempo così “paesano”, che solo chi ha vissuto il decennio che va dal 1930 al 1940 può capire. Era mondano per l’eleganza, ed il fascino delle donne che ingentilivano la via, da piazza Giordano Bruno a via Margherita e viceversa.

Via D'Aquino, com'era e com'è

Via D’Aquino, com’era e com’è

Non c’erano – per fortuna – i blue jeans e la cura posta nell’abbigliamento e nell’igiene della persona, facevano di ogni ragazza uno spettacolo unico e diverso.

Era paesano per quell’andare su e giù, guardando e facendosi guardare, proprio come forse ancora avviene sullo “stradone” di qualche paese. La festa, che di festa si trattava, raggiungeva il suo culmine prima di mezzogiorno quando le famiglie della buona borghesia uscivano per recarsi alla messa delle dodici nella chiesa del Carmine, già gremita fino al sagrato.

Era verso quell’ora che uscivano dal loro moderno e lussuoso – per l’epoca – palazzo ricostruito ove oggi sorge una banca molto cara ai tarantini, quattro sorelle diversamente belle ma ugualmente gentili e virtuose, che suscitavano la rispettosa ammirazione di tutti. Quasi contemporaneamente facevano la loro apparizione altre tre sorelle, dai nomi chiaramente mitologici, figlie di un professore titolare di un istituto privato.

Via D'Aquino com'era

La vecchia SEM e il Carmine

In poco tempo la via si gremiva di una folla multicolore.

L’unico inconveniente era costituito dai binari del tram che costeggiavano il marciapiede di destra, scendendo verso il “Canale”. Il tram non creava problemi nei suoi ampi, intervallati passaggi. La gente lo sentiva sferragliare da lontano e aveva tutto il tempo di spostarsi.

L’itinerario aveva un punto di attrazione costituito dal “Caffè Greco”, che per molti anni è stato il più importante punto di ritrovo della città. Quando il Caffè Greco si trasferì dal corso Due Mari al palazzo degli Uffici, prendendo i locali d’angolo che affacciano da un lato su via D’Aquino e dall’altro sulla piazza verso via Cavour, in poco tempo la zona diventò il centro cittadino. Ettore Greco, che aveva ereditato dal padre le attitudini commerciali, diede al nuovo locale un’impronta di modernità che poneva Taranto a livello delle grandi città.

Parte della piazza fu limitata da una leggera ringhiera in ferro battuto e fu creato una specie di palco per l’orchestra. Numerosi tavolini, comode poltroncine di vimini, compitissimi camerieri – si diceva perfino che uno avesse lavorato a Londra! – e musica deliziosa costituivano un richiamo irresistibile.

Quando la sera e la domenica mattina l’orchestra cominciava a suonare, la gente di assiepava intorno alla ringhiera godendo la buona musica e guardando con diversi – non manifestati pensieri – quelli che gustavano un gelato o aspiravano con la cannuccia un frappé di latte dell’azienda Motolese.

Appena l’estate era al culmine veniva scritturata una cantante che si esibiva dinanzi ad un uditorio attento ed anche critico. Alla fine di ogni pezzo il pubblico esterno applaudiva con più calore di quello seduto e molto spesso chiedeva il “bis” di un motivo in voga.

Bello sarebbe se si potesse chiedere il “bis” di quell’epoca, in cui Taranto trasudava bellezza. Gentilezza. Meraviglia.

Dobbiamo, tuttavia, accontentarci dei ricordi e di qualche buona lettura. Per un attimo, però, Peluso ci ha fatti sognare. E a te?

 

Photo credits: Pagina Facebook “Taranto com’era” (img in evidenza e img in bianco e nero Via D’Aquino) – www.delfinierranti.org (img a colori Via D’Aquino) – www.mondotram.it (img SEM e Carmine)

 

 

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